La patina del tempo nulla risparmia, anche le tradizioni non sfuggono alla regola e, soprattutto nei passaggi generazionali, rischiano di perdere forza nella loro funzione sostanziale, quella di rimandare ai valori fondanti della cultura che le ha generate.
Alcune, tuttavia, sono così profondamente radicate da perpetuarsi con rinnovato vigore nei racconti e nei gesti da assumere una valenza rituale. Il presepe, nella sua costruzione, è una di queste.
Sembra una rappresentazione scenica, quasi una fotografia tridimensionale della Notte Santa, ma, guardando l’intero contesto con occhi capaci di vedere, ci si rende conto che la staticità è solo apparente e, ogni anno, riscopriamo il miracolo di un dinamismo intrinseco.
Con il trascorrere del tempo, con il passare dei giorni, registriamo mutamenti profondi, a partire dalla mangiatoia, che, inizialmente vuota, si riempie, ma, si badi bene, non mediante una semplice azione meccanica, non si pensi che il sacro pastorello venga preso dalla scatola e posto tra il bue e l’asinello.
In realtà, resta protagonista per tutto l’anno, in quel cantuccio sopra al secrétaire, insieme alle immagini dei cari estinti, un altarino non proprio improvvisato, messo a protezione della casa e dei suoi abitanti, dove non manca mai una piccola lampada votiva.
Allo scoccare della mezzanotte del 24 dicembre, la padrona di casa preleva il bambino e, secondo alcune tradizioni familiari, lo affida nelle mani dell’ultimo nato fra i presenti, affinché venga portato in processione per ogni angolo della dimora e giungere davanti alla grotta, dove viene deposto dopo aver ricevuto l’omaggio di tutti con un bacio sulla fronte.